Il tema delle tre caratteristiche è un aspetto importante di
quello che potremmo chiamare il contenuto esperienziale della saggezza. Sono
fondamentali per capire la descrizione della realtà data dal Buddha e sono
altresì segnali che indicano la direzione della pratica. E’ infatti importante
sottolineare che impermanenza, sofferenza e non-sé indicano la stessa cosa: la
realtà.
In
altre parole, quando parliamo della conoscenza e della comprensione implicite
nella saggezza ci riferiamo anche a questo insegnamento e al suo manifestarsi
nel corso della pratica.
Prima di
passare ad esaminare le tre caratteristiche singolarmente, cerchiamo di capire
bene di cosa parliamo.
Prima di tutto che cosa è una
caratteristica e cosa non lo è? Una caratteristica è qualcosa che è peculiare e
invariabilmente connesso a qualcos'altro. Siccome la caratteristica è
necessariamente connessa a una cosa, questa ci può indicare la natura di quella
cosa, ma non è la cosa stessa. Facciamo un esempio: il calore è la
caratteristica del fuoco, ma non dell'acqua. Il calore è la caratteristica del
fuoco perché è sempre e invariabilmente connesso col fuoco, mentre invece, che
l'acqua o la terra o l’aria siano calde o dipende dal fatto che i vari elementi
mescolano le loro proprietà. Il calore del fuoco invece sempre è connaturato al
fuoco. I quattro elementi sono dunque in costante mutamento condizionandosi
l’un l’altro, configurando così la realtà percepita.
E' in
questo senso che il Buddha usa quindi il termine "caratteristica",
per riferirsi alle qualità fondamentali riguardanti la natura dell'esistenza
che sono sempre connesse con il manifestarsi di quegli elementi.
Quando
il Buddha ha parlato delle tre caratteristiche dell'esistenza, intendeva dire
che queste caratteristiche sono sempre presenti in qualsiasi fenomeno venga da
noi sperimentato o conosciuto. Nella dottrina buddhista le tre caratteristiche
dell'esistenza sono in genere esposte nei loro tre aspetti:
Anicca-impermanenza:
il cambiamento momento per momento, la transitorietà, il sorgere e svanire dei
fenomeni.
Aniccalakkhana,
il segno dell’impermanenza: l’esistenza per un unico momento, in cui la sua
nascita è anche la sua dissoluzione.
Aniccanupassana, la
contemplazione dell’impermanenza.
Dukkha-sofferenza:
l’oppressione dovuta alla transitorietà, alla continua perdita. Dukkhalakkhana,
il segno della sofferenza: l’oppressione, il senso di insoddisfazione,
l’imperfezione.
Dukkhanupassana, la
contemplazione della sofferenza.
Anatta-non
sé: la natura condizionata dell’esistenza, l’assenza di un controllore (anima,
sé superiore), la realtà che si manifesta in modo naturale momento dopo
momento. Anattalakkhana, il segno del non sé: l’assenza di un controllore, di
un’anima, la mancanza di controllo
Anattanupassana, la
contemplazione del non-sé.
Queste
tre caratteristiche sono sempre presenti o connesse all'esistenza. Si
manifestano cioè in ogni fenomeno che investighiamo e ci aiutano a comprendere
qualcosa sulla realtà che sostiene e supporta l’esistenza della realtà
convenzionale che sperimentiamo tutti i giorni.
Questo è lo scopo della comprensione
delle tre caratteristiche: rimuovere l'attaccamento, indebolendo lentamente
l'illusione che ci porta erroneamente a pensare che sia sensato cercare di
trattenere le cose che pensiamo ci appartengano. Infatti è l’illusione che le
cose intorno a noi siano in relazione al processo cognitivo che le apprende, o
in altre parole che siano collegate a un sé, che normalmente comporta
l’attrazione verso le cose piacevoli e l’avversione verso quelle spiacevoli.
Questa è la ragione per cui le tre caratteristiche fanno parte del contenuto
della saggezza.
Vediamo ora la prima
delle tre caratteristiche dell'esistenza:
Anicca, la caratteristica
dell'impermanenza (anicca in lingua Pali).
Nelle
scritture buddhiste si dice che ogni cosa nel mondo è impermalente e
transitoria, che la nascita e la morte sono come una danza e che la vita umana
è come un lampo o una cascata. Sono tutte inequivocabili immagini della
transitorietà che ci aiutano a capire che tutto è segnato o caratterizzato
dall'impermanenza.
Se
osserviamo noi stessi, vediamo che il corpo è soggetto a un cambiamento
continuo: dimagriamo, ingrassiamo, invecchiamo, i denti e i capelli cadono.
Anche gli stati e i contenuti mentali sono transitori: un momento siamo felici,
un altro tristi, a volte rabbiosi, altre indifferenti, in relazione alle
condizioni che sperimentiamo nel momento stesso.
Questo processo di cambiamento continuo, personale e
impersonale, interno ed esterno, va avanti in continuazione, anche quando non
ce ne accorgiamo, influendo profondamente su di noi nella vita quotidiana. I
rapporti con gli altri sono soggetti a cambiamenti continui, gli amici diventano
nemici e i nemici diventano amici. Se li osserviamo attentamente ci rendiamo
conto di come questi rapporti siano segnati da cambiamenti continui: tutto ciò
che amiamo, case, automobili, vestiti è transitorio, tutto si deteriora e alla
fine cambia o giunge al termine. In tutti gli aspetti della vita, sia materiali
che mentali, sia nelle relazioni con gli altri che con i nostri beni, possiamo
verificare direttamente l'impermanenza, osservandola nella sua immediatezza.
E'
importante capire l'impermanenza non solo per la pratica del Dhamma. Nella vita
quotidiana siamo talmente bloccati da idee poco inclini ai cambiamenti, da
convinzioni incrollabili su come dovrebbe essere quello che ci circonda in
relazione a chi pensiamo di essere: è questo che crea molte sofferenze.
Fino a
questo punto abbiamo descritto ciò che possiamo sperimentare a livello
convenzionale con i nostri sensi e che è facilmente comprensibile dal nostro
“senso comune”.
Nel
progresso dell’insight ci spostiamo però in un territorio nuovo, un territorio
nel quale ci muoviamo grazie ad un genere speciale di consapevolezza, ovvero la
“consapevolezza di vipassana”. Questa, unita ad una corretta concentrazione, ci
consente di fare esperienza dei processi corpo/mente ad un livello più profondo
di quello a cui siamo abituati nei processi cognitivi abituali. C’è infatti una
specifica esperienza che si verifica a un certo punto del percorso meditativo
grazie alla quale sperimentiamo Anicca, l’impermanenza in relazione ai nostri
processi corpo/mente, definita come la
conoscenza
dell’insorgenza e della dissoluzione (Udayabbaya ñana).
La maturazione
della percezione dell’impermanenza, porta a sperimentare la rapidità del
processo. Tutti i fenomeni vengono visti sorgere e svanire, e scorrono sempre
più veloci con l’approfondirsi della presenza mentale e della concentrazione.
Alla fine, tutto scompare nel momento stesso del suo sorgere e questo flusso
acquista velocità trasformandosi da un lento fiume in torrenti impetuosi, in cascate
e, infine, in nuvole di goccioline che esplodono come fuochi d’artificio.
Questa conoscenza è considerata una pietra miliare nella pratica, in quanto la
sua maturazione annulla tutti i concetti. Si
comprende che
tutto è formato da queste momentanee particelle (dhamma). È una comprensione
accompagnata dalla gioia. Con la maturazione di questa conoscenza ci
incamminiamo verso gli stadi più avanzati sul cammino della saggezza e possiamo
pervenire alla
Conoscenza della
dissoluzione (Bhanga ñana).
La
percezione dell’impermanenza evolve nella percezione della dissoluzione. Si
sperimenta che il senso più profondo del processo è la cessazione, che è il
destino finale di tutte le cose. Con la maturazione di questa conoscenza,
continuando ad osservare, vediamo chiaramente che stiamo guardando un niente.
Anche l’osservatore è un niente. Questa è l’essenza del processo: la
cessazione. Ma, come avvertono gli insegnanti, è una cessazione che fa parte
del processo del divenire, una cessazione che sorge nuovamente (upada nirodha).
Occorre quindi sforzarsi di realizzare la cessazione priva di nuova insorgenza
(anupada nirodha).
A questo
punto del percorso meditativo risulta particolarmente chiaro il carattere
oppressivo di questo costante decadimento e questo ci porta sperimentare gli
insight su
Dukkha, la seconda caratteristica, la
sofferenza/insoddisfazione/imperfezione.
Il Buddha, nel suo primo discorso dopo l’illuminazione, ha
detto che tutto ciò che è impermanente è doloroso o insoddisfacente e che tutto
ciò che è impermanente e doloroso non ha un sé. Tutto ciò che è impermanente è
doloroso perché l'impermanenza è occasione, piuttosto che una causa, di
sofferenza, ma solo finché sono presenti ignoranza, bramosia e attaccamento.
Perché ? Nella nostra ignoranza della vera natura della realtà, desideriamo e
ci attacchiamo alle cose nella vana speranza che siano durature, che possano
dare una felicità permanente. Non accettando che la gioventù, la salute e la
vita stessa siano impermanenti, le desideriamo e ci attacchiamo ad esse: è
allora che il cambiamento diventa occasione di sofferenza. Ugualmente, se non
riconosciamo la natura impermanente dei nostri beni, del potere e del
prestigio, li desideriamo e ci attacchiamo ad essi. Quando finiscono, la
perdita è occasione di sofferenza.
Il buddhismo enumera tre
tipi di sofferenza:
Dukkha-dukkha
- la "sofferenza comune": si sperimentano dolori fisici e mentali,
malattie nel corpo, disperazione e depressione nella mente;
Sankhara
dukkha - la "sofferenza onnipervadente dovuta alle formazioni",
dovuta agli stati condizionati (sofferenza samsarica);
Viparinama dukkha – “la
sofferenza dovuta al cambiamento, alla perdita”.
Mentre
in relazione alle tre caratteristiche universali la sofferenza si colloca in un
livello intermedio, non dobbiamo dimenticare come essa sia la prima citata
nell’insegnamento del Buddha nelle:
Quattro nobili verità:
Dukkha è
la prima delle quattro nobili verità e ci indica il fatto che l’ignoranza sulla
vera natura della realtà ci porta a vivere con sofferenza e insoddisfazione le
esperienze;
Samudaya
è l’origine di dukkha, il desiderio (tanha) per ciò che è piacevole o
l’avversione per ciò che è sgradevole;
Nirodha è la cessazione di dukkha, la
libertà dalla sofferenza, ovvero che per eliminare completamente dukkha se ne
deve eliminare la radice principale, il desiderio.
Magga è
il sentiero che conduce alla cessazione di dukkha.
Anatta, la terza caratteristica, il
non-sé.
Anatta,
tradotto come non-sé, non-ego, non-io, impersonalità, è l’ultima delle tre
caratteristiche dell’esistenza (ti-lakkhana).
La
dottrina di anatta insegna che, né all’interno dei fenomeni corporei e mentali,
né al loro esterno, possa essere trovato qualcosa che, nel senso ultimo, sia
considerato come un sé indipendente e reale, un controllore superiore, un’anima
o qualsiasi altra entità permanente che non sia condizionata. Questa è una
dottrina centrale del buddhismo, senza la cui comprensione non è possibile
accedere a una vera conoscenza del buddhismo stesso.
Tutte le altre dottrine buddhiste
possono, più o meno, essere trovate anche in altri sistemi filosofici e
religioni, ma quella di anatta è stata chiaramente e senza riserve insegnata
solo dal Buddha, ragione per cui il Buddha è conosciuto come anatta-vada, o “il
Maestro dell’Impersonalità”.
Chiunque
non abbia penetrato questa impersonalità dell’esistenza, non può comprendere
che in realtà ciò che esiste è solo un processo auto-consumante di fenomeni
corporei e mentali che sorgono e passano e che non esiste un ego-entità
separato dentro o fuori questi processi. Non sarà quindi in grado di
comprendere gli insegnamenti delle Quattro Nobili Verità nella giusta luce.
Penserà infatti che è la sua identità, la sua personalità che sperimenta la
sofferenza, la sua personalità che compie azioni buone o malvagie e che ne
vivrà le conseguenza.
Così è infatti riportato
nel Visuddhimagga o Sentiero della purificazione di Buddhaghosa:
“c’è la
sofferenza, ma nessun sofferente che sia trovato; ci sono le azioni, ma nessun
autore delle azioni;
c’è il
Nibbana, ma nessun uomo che vi entri; c’è il sentiero, ma nessuno che lo
percorra.”
“Chiunque non abbia chiara la
natura condizionata dei fenomeni che sorgono e non comprenda che tutte le
azioni sono condizionate dall’ignoranza, …, penserà che ci sia un io che
comprenda o non comprenda, che agisca o causi l’agire, che venga all’esistenza
con la nascita … che possegga i sensi, che sperimenti il sentire, esprima
desideri, divenga attaccato, continui e con la rinascita entri in una nuova
esistenza” (Vism. XVII, 117).
Tutto ha una causa
Ogni esperienza ha una sua causa: una azione necessita l’intenzione
di compierla, un pensiero è il frutto di una delle prerogative dell’attività
mentale, un dolore sorge poiché ce ne stiamo seduti a gambe incrociate da più
di mezz’ora.
Ci
accorgeremo di questo sperimentando che, nel campo della coscienza e intorno a
noi nella realtà convenzionale, nulla esiste o avviene di per sé. Tutto ha una
causa, è condizionato da qualcos’altro e questo condizionamento è parte di un
processo naturale: a causa di questo, quello sorge. La causa e l’effetto non
possono esistere singolarmente, ma sono parte di un processo: il riconoscimento
di questo processo ci porta a riconoscere il marchio di anatta o non-sé.
Definizione di non-sè
Non-sé
significa assenza di un controllore, assenza di un’anima eterna, piccola o
grande che sia. Questa definizione fa paura a molti, perché sembra negare
completamente l’esistenza di una persona. In realtà significa che uno non è ciò
che pensa di essere e che la propria vera natura può essere conosciuta solo
dopo avere abbandonato o, per meglio dire trasceso, l’attaccamento al concetto
di io.
Questa definizione ha la
funzione di indebolire e infine rimuovere qualunque attaccamento alle visioni
errate della personalità, passo indispensabile per sviluppare una visione
corretta della realtà e dell’esistenza.
Se
infatti smettiamo di afferrarci all’idea di un sé, che cosa rimane? La realtà,
che si rivela in modo naturale se c’è presenza mentale e questa esperienza sarà
diversa in dipendenza della chiarezza e dell’acutezza della consapevolezza.
Quindi, il non sé è “le cose come realmente sono”, la realtà libera da
concetti.
Negli
stadi iniziali della pratica meditativa, la realtà viene percepita in relazione
alle qualità che la compongono; poi, con l’approfondirsi della visione, si
percepiscono le tre caratteristiche universali. Quando la visione profonda è
matura, rimane solo l’incondizionato. In questi stati il problema
dell’esistenza dell’“io” non si pone, perché non c’è più il pensiero. C’è
soltanto la mente e l’oggetto.
L’io nel buddhismo
Com’è visto l’io (il sé) con gli occhi di un buddhista?
Nella metafisica buddhista l’io è soltanto un concetto, nel caso degli esseri
umani il concetto di persona. È un concetto necessario per la vita sociale, in
cui è un punto di riferimento rispetto al mondo che ci circonda. Serve per
comunicare e relazionarsi; i guai arrivano quando non è usato con saggezza.
Senza
presenza mentale ci afferriamo all’io e lo poniamo al centro della nostra
esperienza esistenziale e, poiché lo facciamo in modo decisamente tenace,
quello che succede è che ci ritroviamo immersi nell’insoddisfazione,
nell’illusione che le cose accadono a “noi”. Da qui il passaggio alla paura,
all’avversione, alla brama o all’isolamento è breve.
Ad esempio, se chiediamo alle persone “chi sei?”, qualunque
risposta data fa riferimento, in genere, a uno dei cinque aggregati:
Il corpo - io sono
questo corpo, questo corpo è mio, questo corpo è me stesso.
Il
sentire - io sono la sensazione (sono felice), la sensazione è mia, la
sensazione è me stesso (il mio “cuore” è il mio sé). È come dire: sento, quindi
esisto.
Le
percezioni – io sono queste percezioni,….. E’ come dire: riconosco, quindi
esisto. Le formazioni mentali - …penso, quindi esisto.
La coscienza - …conosco,
quindi esisto.
Il
meditante che osserva sorgere e svanire i processi mentali e materiali vede che
queste identificazioni sono illusorie e possono essere non funzionali, perché,
quando le cose finiscono o non vanno come vorremmo, sorgono dolore e frustrazione,
sorge il pensiero: “Perché deve essere così?”
La modalità ordinaria con cui integriamo le nostre
esperienze non è l’unica, ma è spesso non funzionale visto che crea
attaccamento o avversione verso la realtà stessa, quindi insoddisfazione. L’io,
che svolge una primaria funzione integrativa e dà significato alle cose, è
funzionale nel momento in cui riconosce e accetta la natura delle cose nella
loro transitorietà, senza attaccarsi o respingere: è importante quindi che ci
sia un movimento dall’io non funzionale a un io funzionale. In sintesi, quello
che definiamo come “il mio sé” non è che non esista, è solo una costruzione di
parti, un insieme che muta come qualsiasi altra cosa. Dietro le cose c’è un
processo e lo stesso “sé “ è un processo.
Per concludere, una volta che è il non-sé è riconosciuto e
sperimentato, si accede a una esperienza della realtà in cui:
·
C’è
una continua e forte presenza mentale libera da concetti.
·
C’è una vivida e precisa percezione delle
caratteristiche dei fenomeni mentali e materiali che avviene naturalmente.
·
C’è la chiara percezione del condizionamento,
ovvero del modo in cui fenomeni e qualità relative dipendono reciprocamente per
la loro esistenza.
·
C’è una chiara visione dell’intenzione che
precede qualunque azione, si abbandona qualunque attaccamento a un sé collegato
all’azione.
Fonti Bibliografiche:
L’albero
dell’illuminazione - Peter della Santina
Elementi essenziali
della meditazione di Insight – Bhante Sujiva
L’albero della saggezza,
il fiume del non ritorno – Bhante Subiva
Pali – English Dictionary – A.P. Buddhadatta Mahathera
Visuddhimagga (il
sentiero della purificazione) - Buddhagosa
Sintesi elaborata da Giancarlo.Giovannini Massimo Bonomelli
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