lunedì 22 aprile 2019

Abhidhamma nella vita quotidiana. Capitolo 2 - I cinque aggregati



Proseguiamo, dopo il 1° importante capitolo di Abhidhamma nella vita quotidiana di Nina Van Gorkom, con il 2° capitolo, quello sugli aggregati.
L'Abhidhamma è il terzo dei canestri della Canone Buddhista ed è un’esposizione dettagliata di tutte le realtà, costituisce una risorsa fondamentale per comprendere appieno la visione buddhista della mente e della realtà. La pubblicazione della versione italiana è stata curata da A.S.Comba.
Segnalo a tutti voi la pagina web di lulu.com di Antonella Comba nella quale pubblica i suoi lavori, potete trovare molte risorse di fondamentale per lo studio del buddhismo. Antonella ha tradotto dal Pali testi di grande importanza che è possibile scaricare in formato .pdf per consultazione, oppure riceverli rilegati.
Ad Antonella, amica e compagna nel Dhamma, va il mio personale ringraziamento per il suo lavoro.
Warning: questi post sono di grande rilevanza per comprendere pienamente il pensiero buddhista, costituiranno tema di approfondimento nei futuri Incontri Domenicali
 
CAPITOLO II

 I cinque khandha (aggregati)

Il Buddha scoprì la verità di tutti i fenomeni e conobbe per esperienza diretta la caratteristica di ogni fenomeno. Mosso da compassione, insegnò agli altri a vedere la realtà in molti modi, affinché essi potessero avere una comprensione più profonda dei fenomeni interni ed esterni.

Quando le realtà sono classificate in quanto paramattha- dhamma, sono distinte in

  citta,
  cetasika,
  rūpa e
  nibbāna.

I citta, i cetasika e i rūpa sono realtà condizionate (saṅkhāra- dhamma). Sorgono a causa di condizioni e svaniscono di nuovo: essi sono impermanenti. Il nibbāna è l’unico paramattha-dhamma incondizionato (asaṅkhata-dhamma): esso non sorge e non svanisce. Tutti e quattro i paramattha-dhamma sono anatta (non sé).
I citta, i cetasika e i rūpa possono essere classificati mediante le categorie dei cinque khandha. La parola khandha significa “gruppo”, “insieme”, “aggregato”. Ciò che è classificato come khandha sorge a causa di determinate condizioni, dopodiché svanisce. I cinque khandha non sono diversi dai tre paramattha-dhamma citta, cetasika e rūpa. Le realtà possono essere divise in varie categorie, a seconda delle quali ricevono particolari nomi.

I cinque khandha sono i seguenti:
  • rūpakkhandha, l’aggregato di tutti i fenomeni fisici 
  • vedanākkhandha, l’aggregato della sensazione (vedanā); 
  • saññākkhandha, l’aggregato della “percezione” o del ricordo 
  • saññāsaṅkhārakkhandha, l’aggregato delle  “formazioni” (saṅkhāra), che comprende cinquanta cetasika; 
  • viññāṇakkhandha o aggregato della coscienza (viññāṇa), che comprende tutti i citta (89 o 121).
 I cinquantadue tipi di cetasika che possono sorgere con il citta sono divisi in tre categorie di khandha
  • un primo khandha è il cetasika della sensazione (vedanākkhandha); 
  • un secondo khandha è il cetasika della percezione (saññākkhandha); 
  • i restanti cinquanta cetasika sono raccolti tutti insieme nel khandha delle formazioni (saṅkhāra- kkhandha). 
Per esempio, nel saṅkhārakkhandha sono inclusi i seguenti cetasika: la volizione o intenzione (cetanā), la cupidigia (lobha), l’avversione (dosa), la confusione (moha), la gentilezza amorevole (mettā), la generosità (alobha) e la saggezza (paññā). Tutti gli inquinanti e le qualità positive sono inclusi nel saṅkhārakkhandha. Essi sono impermanenti e non sé. La parola saṅkhāra è talvolta tradotta con “attività” o “formazioni mentali”2.

Quanto al citta, tutti i citta sono riuniti nel viññāṇakkhandha. I termini in pāli viññāṇa, mano e citta indicano la stessa realtà: ciò che ha la caratteristica di conoscere o sperimentare qualcosa. Quando si classifica il citta in quanto khandha, si usa la parola viññāṇa.

Pertanto da una parte c’è il rūpakkhandha, dall’altra ci sono quattro khandha che sono nāmakkhandha. Tre nāmakkhandha sono costituiti da cetasika, mentre un nāmakkhandha è costituito da citta.

Qualsiasi cosa costituisca un khandha non dura: non appena sorge, svanisce. Sebbene i khandha sorgano e svaniscano, sono reali e possono essere sperimentati quando si manifestano. Il nibbāna, il dhamma incondizionato che non sorge e non svanisce, non è un khandha.

Circa il sorgere e lo svanire del nāma e del rūpa, dice Buddhaghosa:

Non c’é alcun insieme o cumulo che esista prima del sorgere di questo “nome e forma”. Quando esso sorge, non proviene da alcun insieme o cumulo. Quando cessa, non va in alcuna direzione principale o secondaria. Una volta cessato, non c’è alcun deposito in qualche luogo dove si possa metterlo insieme, accumularlo, ammassarlo. Prima che un suono emesso da un liuto nasca, non esiste alcun cumulo [di suoni], né, quando il suono nasce, proviene da alcun cumulo; né, quando cessa, va in alcuna direzione principale o secondaria; né, una volta cessato, persiste sotto forma di cumulo3, ma, al contrario, esso viene prodotto senza che prima esistesse, e nasce dal liuto, dal collo del liuto e dallo sforzo umano; e, dopo essere esistito, si dissolve (paṭiveti). Nello stesso modo tutti i dhamma dotati di forma e senza forma non esistono prima di essere prodotti, e dopo essere esistiti si dissolvono. 

I khandha sono realtà che possono essere sperimentate: per esempio, quando sentiamo la durezza di un oggetto abbiamo esperienza del rūpakkhandha. Questo fenomeno non dura, ma sorge e svanisce, perché il rūpakkhandha è impermanente. Esso non comprende solo i rūpa del corpo, ma anche gli altri fenomeni fisici. Per esempio, il suono è un rūpakkhandha: sorge e svanisce, quindi è impermanente.
Anche il vedanākkhandha, che comprende tutti i tipi di sensazioni, è reale, perché noi sperimentiamo le sensazioni. La sensazione può essere classificata in vari modi. Talvolta si elencano tre tipi di sensazioni:

  la sensazione piacevole (sukha),
  la sensazione spiacevole (dukkha),
  la sensazione neutra (upekkhā).

Talaltra si enumerano cinque tipi di sensazioni:

  la sensazione piacevole corporea (sukha),
  la sensazione spiacevole corporea (dukkha),
  la sensazione piacevole mentale (somanassa),
  la sensazione spiacevole mentale (domanassa).
  la sensazione neutra (upekkhā).

La sensazione corporea è una sensazione che ha per condizione causale il senso corporeo, il rūpa che ha la capacità di ricevere lpressioni corporee. La sensazione è di per sé un nāma, ma ha per condizione causale un rūpa, il senso corporeo. Quando un oggetto entra in contatto con il senso corporeo, la sensazione è o piacevole o spiacevole: non c’è una sensazione corporea neutra. Quando la sensazione corporea è spiacevole, è un akusala-vipāka (il risultato di un’azione non salutare); se invece è piacevole, è un kusala-vipāka (il risultato di un’azione salutare).
Dato che le sensazioni sorgono e svaniscono istantaneamente è difficile distinguerle l’una dall’altra. Per esempio, siamo inclini a confondere la sensazione piacevole corporea, che è un vipāka, con la sensazione piacevole mentale che può sorgere subito dopo, insieme all’attaccamento per quella sensazione piacevole corporea. Oppure possiamo confondere la sensazione spiacevole corporea con la sensazione spiacevole mentale che può seguirla insieme all’avversione. Quando c’è un dolore fisico, la sensazione spiacevole corporea è un vipāka e accompagna il vipāka-citta che sperimenta l’oggetto spiacevole che colpisce il senso corporeo5. In seguito può sorgere la sensazione spiacevole mentale; non è un vipāka, ma accompagna l’akusala- citta con avversione, ed è pertanto akusala. L’akusala-citta con avver- sione sorge a causa dell’avversione (dosa) che abbiamo accumulato in precedenza. Sebbene la sensazione corporea e quella mentale siano entrambe nāma, sono sensazioni di tipi del tutto differenti e sorgono a causa di condizioni diverse. Quando non ci sono più condizioni che provochino il dosa, ci può ancora essere una sensazione spiacevole corporea, ma non c’è più una sensazione spiacevole mentale. L’arahat, il realizzato che ha sradicato tutti gli inquinanti, può ancora avere akusala-vipāka finché la sua vita non è giunta al termine, ma non ha più avversione.

Nel Saṃyutta-nikāya leggiamo queste parole:

                Così ho udito. Una volta il Beato soggiornava a Rājagaha, nel Parco delle gazzelle
di Maddakucchi. In quell’occasione, il suo piede fu trafitto da una scheggia di pietra. Sentì allora sensazioni corporee tremende, dolorose, acute, strazianti, lancinanti, spiacevoli, sgradevoli.
Ma il Beato le sopportò, con consapevolezza e discernimento, senza affliggersi.

Le sensazioni possono essere di sei tipi quando sono classifica- te in base ai contatti che avvengono attraverso le sei porte: ci sono sen- sazioni che sorgono perché sono sperimentate attraverso gli occhi, le orecchie, il naso, la lingua, il senso corporeo e la mente. Tutte queste sensazioni sono diverse e sorgono a causa di condizioni differenti. La sensazione sorge e svanisce insieme al citta che accompagna; pertanto in ogni istante la sensazione è differente.

Disse il Buddha ai monaci:

O monaci, un monaco dovrebbe attendere la morte consapevole, con una profonda comprensione. Questa è l’istruzione che vi dò. [...] Ora, monaci, mentre il monaco dimora consapevole, dotato di una profonda comprensione, diligente, fervido e risoluto, in lui sorge una sensazione piacevole. Egli così conosce:

“È sorta in me una sensazione piacevole. Essa dipende da qualcosa (paṭicca), non è indipendente. Da che cosa dipende? Dipende da questo contatto. Ora questo contatto è impermanente, condizionato, coprodotto condizionalmente. La sensazione piacevole è sorta condizionalmente da questo contatto impermanente, condizionato, coprodotto condizionalmente. Come potrebbe essere permanente?”. Così egli dimora contemplando l’impermanenza nel contatto e nella sensazione piacevole, lo svanire, il distacco, la cessazione, il lasciare andare. Mentre contempla in essi l’impermanenza abbandona la tendenza al desiderio per il contatto e la sensazione piacevole. [Lo stesso vale per la sensazione spiacevole e neutra].

Ci sono ancora molti altri modi di classificare le sensazioni. Conoscere tali modi può aiutarci a renderci conto che la sensazione è solo un fenomeno mentale che sorge a causa di condizioni. Siamo inclini ad attaccarci a sensazioni che sono svanite, invece di essere con- sapevoli della realtà del momento presente quale appare attraverso gli occhi, le orecchie, il naso, la lingua, il senso corporeo o la mente. Nel passo del Visuddhi-magga sopra citato (cap. XX, § 96), nāma e rūpa sono paragonati al suono di un liuto che, quando sorge, non proviene da alcun “cumulo”, né va in alcuna direzione quando cessa, né persiste come “cumulo” dopo che è cessato. Tuttavia, ci attacchiamo così tanto alle sensazioni che non ci rendiamo conto che la sensazione che è svanita non esiste più, è cessata completamente. Il vedanākkhandha (l’aggregato della sensazione) è impermanente.

Il saññākkhandha (l’aggregato della percezione) è reale: può essere sperimentato ogni qual volta ricordiamo qualcosa. La sāññā accompagna ogni momento del citta. Ogni citta che sorge sperimenta un oggetto e la saññā che sorge con il citta ricorda e segna quell’oggetto in modo che possa essere riconosciuto. Anche quando c’è un istante in cui non si riconosce qualcosa, il citta pur tuttavia sperimenta un oggetto e la saññā che sorge insieme a esso etichetta quell’oggetto. La saññā, che sorge e svanisce con il citta, è impermanente. Finché non vediamo la saññā com’è in realtà solo un fenomeno mentale che svanisce non appena è sorto prenderemo la saññā per il sé.

Il saṅkhārakkhandha (tutti i cetasika tranne la sensazione e la percezione) è reale, perché può essere sperimentato. Quando sorgono i fattori mentali belli (sobhana-cetasika) come la generosità e la compassione, o quando sorgono i fattori mentali non salutari come la rab- bia e l’avarizia, possiamo sperimentare il saṅkhārakkhandha. Tutti questi fenomeni sorgono e svaniscono, per cui il saṅkhārakkhandha è impermanente.

Il viññāṇakkhandha (il citta) è reale: possiamo sperimentarlo quando ci sono il vedere, l’udire, l’odorare, lo sperimentare oggetti tangibili attraverso il senso corporeo o il pensare. Il viññāṇakkhandha, che sorge e svanisce, è impermanente. Tutti i saṅkhāra-dhamma (fe- nomeni condizionati), vale a dire i cinque khandha, sono impermanenti.


 Talvolta i khandha sono chiamati “khandha dell’attaccamento” (pāli upādānakkhandha). Coloro che non sono arahat si attaccano an- cora ai khandha: prendono il corpo per il sé e si attaccano al rūpakkhandha; prendono il nāma per il sé e si attaccano al vedanākkhandha, al saññākkhandha, al saṅkhārakkhandha e al viññāṇakkhandha. Se ci si attacca ai khandha e non li si vede così come sono, si prova sofferenza. Finché i khandha sono ancora oggetto di attaccamento, si è come malati.
Leggiamo nel Saṃyutta-nikāya che il capofamiglia padre di Nakula – un uomo anziano e malato si recò a incontrare il Buddha a Susumāragira, nel boschetto di Bhesakaḷā, nel Parco delle gazzelle. Il Buddha gli disse che avrebbe dovuto allenarsi a pensare così: “Anche se il mio corpo è infermo, la mia mente sarà priva di infermità”.

Più tardi Sāriputta gli spiegò ulteriormente le parole del Buddha:

Ora, capofamiglia, l’incolto uomo comune [...] che non è istruito nel Dhamma né è allenato nel Dhamma, considera il corpo (rūpa, lett. “forma”) come il sé o il sé come dotato di corpo, op- pure vede il corpo nel sé o il sé nel corpo. [Dice]: “Io sono il corpo”, “Il corpo è mio” e si fissa in questa idea. Ma il corpo di colui che è così fissato si trasforma in qualcos’altro. Poiché il suo corpo si trasforma in qualcos’altro, in lui sorgono il cordo- glio, il lamento, l’afflizione, la tristezza e la disperazione.

Egli considera la sensazione (vedanā) come il sé... considera la percezione (saññā) come il sé... considera le formazioni (saṅkhāra) come il sé... considera la coscienza (viññāṇa) come il sé... Così, capofamiglia, si può essere infermi nel corpo e nella mente.

E come si può, capofamiglia, essere infermi nel corpo ma non nella mente?

Ora, capofamiglia, il sapiente discepolo dei Nobili [...] non con- sidera il corpo come il sé o il sé come dotato di corpo, né vede il corpo nel sé o il sé nel corpo. [Non dice]: “Io sono il corpo”, “Il corpo è mio” e non si fissa in questa idea. Il corpo di colui che non è così fissato si trasforma in qualcos’altro. Benché il suo corpo si trasformi in qualcos’altro, in lui non sorgono il cordo- glio, il lamento, l’afflizione, la tristezza e la disperazione.

Egli non considera la sensazione come il sé... non considera la percezione come il sé... non considera le formazioni come il sé... non considera la coscienza come il sé... Così, capofamiglia, si può essere infermi nel corpo ma non nella mente.

Finché continuiamo ad attaccarci ai khandha, siamo come malati, ma possiamo curare la nostra malattia quando vediamo i khandha così come sono. I khandha sono impermanenti e sono quindi dukkha (“sofferenza”, cioè sono insoddisfacenti).

Leggiamo nel Saṃyutta-nikāya che il Buddha insegnò ai monaci le quattro Nobili Verità: la Verità del dukkha, la Verità dell’origine del dukkha, la Verità della cessazione del dukkha e la Veri- tà della via che conduce alla cessazione del dukkha.

Egli disse:

Monaci, vi insegnerò il dukkha, l’origine del dukkha, la cessazione del dukkha, la via che conduce alla cessazione del dukkha. Ascoltate.

Che cos’è, o monaci, il dukkha
Dev’essere definito come “i cinque khandha dell’attaccamento” (pañcupādānakkhandha). 
Quali sono questi cinque [khandha dell’attaccamento]? 
Il rūpakkhandha dell’attaccamento, 
il vedanākkhandha dell’attaccamento, 
il saññākkhandha dell’attaccamento, 
il saṅkhārakkhandha dell’attaccamento
vedanākkhandha dell’attaccamento. 
Così, o monaci, è definito il dukkha.


E qual'è, o monaci, l’origine del dukkha? È la brama (taṇhā) che conduce a rinascere... la brama per gli oggetti dei desideri (kāma-taṇhā), la brama per il divenire (bhava-taṇhā), la brama per l’assenza di divenire (abhava-taṇhā). Così, o monaci, è definita l’origine del dukkha.

E qual è, o monaci, la cessazione del dukkha? È la cessazione senza residui mediante il distacco dalla brama e il suo abbandono, il lasciarla andare, il liberarsi da essa, il non attaccarcisi. Così, o monaci, è definita la cessazione del dukkha.

E qual è, o monaci, la via che conduce alla cessazione del dukkha? È il Nobile Ottuplice Sentiero [...] Così, o monaci, è definita la via che conduce alla cessazione del dukkha.


Finché continuiamo ad attaccarci ai khandha, essi sorgeranno al momento della rinascita, e ciò comporta sofferenza. Se coltiviamo il Nobile Ottuplice Sentiero, lo sviluppo della retta comprensione delle realtà, impariamo a vedere ciò che i khandha sono realmente. Allora saremo sul sentiero che conduce alla cessazione del dukkha, il che significa che non incorreremo più in ulteriori nascite, nella malattia, nel- la vecchiaia e nella morte. Coloro che hanno raggiunto il livello più alto dell’illuminazione, gli arahat, saranno, al termine della loro vita, liberi dai khandha.



Domande:


1.  Quali paramattha-dhamma costituiscono il nāma?
              2.  Quali paramattha-dhamma sono saṅkhāra-dhamma (realtà condizionate)?
3.  Quale paramattha-dhamma è la realtà incondizionata?
4.  Quali saṅkhāra-dhamma sono nāma?
5.  Tutti i cetasika sono saṅkhārakkhandha?
6.  Il vedanā-cetasika è un khandha?
7.  Il saññā-cetasika è un khandha?
8.  La sensazione spiacevole corporea è un vipāka?
9.  La sensazione spiacevole mentale è un vipāka?
10.   Quali khandha sono nāma?
11.   La coscienza visiva costituisce un khandha?
12.   Il concetto di “essere umano” è un khandha?
13.   Il suono è un khandha?
14.   Quali paramattha-dhamma sono khandha?

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