giovedì 23 gennaio 2020

Come ghiaccio che galleggia sull'acqua


…senza pensarci troppo
senza sentire troppo poco
con tutta la forza creativa che abbiamo
con il potere dell’intenzione consapevole
buon viaggio…


     Agañña Sutta – Sulla conoscenza delle origini
                                        Digha Nikaya 27

 … alcuni esseri nel trapassare sono rinati in questo mondo. In questo mondo essi dimorano, fatti solo di mente, nutriti di gioia, splendenti di propria luce, fluttuanti nell’aria, gloriosi, poi un essere molto avido disse: “Cos’è questo?” – ed assaggiò con le dita la terra colma di sapori. Così facendo, fu preda del gusto, e la brama sorse in lui. Poi altri esseri, imitando il gesto di quell’essere, assaggiarono anche loro con le dita la terra colma di sapori. Così anche loro diventarono preda del gusto, e la brama sorse in loro. Così iniziarono a nutrirsi di pezzi di terra con le loro mani. Il risultato di questa azione fu che persero la facoltà di emettere luce, la luna ed il sole apparvero, così come il giorno e la notte, i mesi e le settimane, gli anni e le stagioni. Da quell’estensione il mondo si rigenerò..

…quegli esseri continuarono a banchettare su questa terra colma di sapori per un lungo lasso di tempo, nutrendosi e cibandosi di essa. Così facendo, i loro corpi divennero grossolani, e una differenza di aspetto si sviluppò fra di loro. Alcuni esseri divennero di bell’aspetto, altri di brutto aspetto. E quelli di bell’aspetto disprezzavano gli altri, dicendo: “Noi siamo più belli degli altri.” Così divennero arroganti e vanitosi, tanto che la terra colma di sapori scomparve. A questo evento si disperarono lamentandosi: “Oh, quel sapore! Oh, quel sapore!”. Perciò quando oggi le persone dicono: “Oh, quel sapore!”, nel gustare qualcosa di buono, stanno ripetendo una primordiale frase senza capirne il senso…
                                                                       
Questo breve brano estratto dall’Aganna Sutta mi sembra appropriato per introdurre questo articolo sulla pratica della presenza mentale. Vi è una domanda che può costituire una attività di indagine sistematica su noi stessi sulla quale vale la pena soffermarsi più spesso di quanto non facciamo: “Chi o cosa sono?”
Il Buddha attraverso i suoi insegnamenti ci offre molte tecniche e pratiche che possono aiutarci nelle nostre indagini. Quello forse più noto, conosciuto e diffuso è quello di rivolgere l'attenzione ai 5 aggregati dell’attaccamento:
  1. aggregato della materia
  2. aggregato della sensazione 
  3. aggregato della percezione
  4. aggregato delle formazioni mentali
  5. aggregato della coscienza
il riferimento all’attaccamento ci rimanda all’automatica identificazione che proviamo per ognuno di questi aspetti delle nostre esperienze. Questa attività meditativa trova la sua applicazione nello sviluppo dei quattro fondamenti della consapevolezza

1.      Il corpo (kaya)
2.      le sensazioni (vedana)
3.      gli stati di coscienza (citta)
4.      gli oggetti della mente (dhammas).

i due aggregati di sensazione e percezione vengono compresi, nella pratica dei 4 satipatthana, nel fondamento delle sensazioni in quanto vengono cosiderati come due aspetti del sentire. Si tratta di un percorso che ci consente di approfondire via via le relazioni tra ciò che viene sperimentato e il fenomeno che conosce, la mente nel suo complesso, o città in lingua Pali.

Il primo passo è iniziare con il corpo. Parlo di primo passo non a caso, perché ogni passo che compiremo ci consentirà di varcare soglie sempre più profonde di conoscenza e comprensione sulla vera natura della realtà e sulle sue caratteristiche, così come emergono ai livelli più intensi di consapevolezza e concentrazione  che crescono durante l'attività meditativa. Come se ognuno di questi passaggi fosse un portale verso nuovi livelli di esperienza grazie a nuovi livelli di conoscenza.
Attivando la nostra attenzione consapevole sul corpo possiamo chiederci: sono le unghie, i capelli, i muscoli, le ossa, il sangue? Anche se la scienza ci dice che le molecole del corpo sono totalmente rimpiazzate ogni sette anni da molecole totalmente nuove, la cosa non ci scompone. Ci limitiamo a sperimentare il funzionamento del corpo come una sorta di continuità che ci appartiene. Proviamo allora a cambiare lo schema e manteniamo la presenza mentale sulle parti e la totalità di ciò che sperimentiamo fino a lasciare andare tutti i concetti e le idee che ci portiamo dentro, restando totalmente aperti, vigili e pronti a sorprenderci…

Diventano allora più chiare le sensazioni fisiche e mentali nei loro dettagli, nelle loro qualità, toni e caratteristiche.
Iniziamo a distinguere tra sensazioni fisiche e mentali, siamo forse quel flusso inarrestabile delle sensazioni? Sensazioni piacevoli, spiacevoli che si alternano e svaniscono, di quelle neutre nemmeno ci accorgiamo e curiamo. Sentiamo sempre qualcosa, ogni singolo momento di esistenza, solo che se non ci attrae o disturba non ce ne accorgiamo. Povere sensazioni neutre, così profonde e tenui, non sono il soggetto ideale per le nostre identificazioni. La nostra distrazione ci offusca e ci impedisce di riconoscere il sottile, trasparente e continuo trascorrere dei processi di causalità e condizionamento che si originano tra sensazioni fisiche e sensazioni mentali

Quando la confidenza con le sensazioni si approfondisce emergono più definite le sottili sfumature relative alle percezioni. Colori, forme, quelli che identifichiamo come i nostri i ricordi, le infinite possibilità del riconoscimento. Le percezioni, così contigue alle sensazioni sono il ritrovamento, il ricordo, la prima impressione che si fissa nelle memorie e che ritornerà.

Sviluppando le nostre abilità di sentire e percepire diventa più semplice l’osservazione impersonale degli oggetti e delle formazioni mentali.
Siamo davvero i pensieri che ci abitano, le visioni sulla vita, le idee, le convinzioni? Possiamo davvero identificarci, fidarci e affidarci alla mutevolezza di pensieri, emozioni, stati mentali? Questa non è una domanda retorica, anzi è forse la più pratica delle domande che ci possiamo porre: chi penso, credo, immagino di essere? Al lavoro, in famiglia, nel campo dei sentimenti e nelle relazioni, nelle comunità a cui partecipo. Riesco a partecipare in modo etico e organico o mi sento separato e isolato? La qualità delle mie idee e convinzioni è proficua e non lo è?

Nei momenti di pace del nostro sentire poi, si apre il campo della coscienza
Se ci sediamo quietamente e cerchiamo di rivolgere la nostra attenzione alla coscienza è assai difficile indicarla o descriverla. Ciò che sperimentiamo è un senso di presenza mentale, forse non riusciamo ad indicarne forma, colore o posizione, ma quel senso di presenza è lì, attivo e vivo. Questo genere di osservazione può perfino risultare frustrante data la vastità di ciò che sperimentiamo. Quello che potremmo sperimentare è una sorta di presenza trasparente, vitale, non localizzata che si lascia cogliere come se fosse l’aria dentro e intorno a noi. Se riusciamo a restare rilassati e aperti dentro l’esperienza di quei momenti di conoscenza non direzionata e priva di oggetti duali scopriremo quello che nel buddhismo spesso viene chiamato ‘il chiaro, vacuo e aperto spazio della presenza mentale’. Vuoto come lo spazio, ma diversamente dallo spazio, è senziente, conosce l’esperienza. Nel suo stato essenziale e puro la coscienza è semplicemente questo ‘conoscere’; chiaro, aperto, senza forma, colore o sapore. Capace di contenere qualsiasi cosa in forma di conoscenza.

Solo quando un suono, un odore, un oggetto visivo, un pensiero, un ricordo entra in quello spazio lo condiziona, lo plasma e lo spazio della coscienza assume nella sua totalità le forme, gli aromi, le vibrazioni, i colori o la configurazione che idee, pensieri, visioni e convinzioni di ciò che sta conoscendo. Il solo entrare in contatto con questa presenza vitale ampia e vacua può comunicarci una specie di vertigine.

Noi possiamo imparare a notare ciò che distingue la coscienza, quando è nel suo stato di puro spazio vacuo, ampio e vitale, da tutti quegli innumerevoli stati transitori ed esperienze che si succedono istante dopo istante. Se non riusciamo a cogliere e comprendere questo punto cruciale noi assumiamo che gli stati transitori che la coscienza assume siano reali, siano nostri. Solo quando i differenti stati che via via sperimentiamo sono visti per ciò che sono: come configurazioni condizionate e transitorie, destinate a svanire, sostituite dal sorgere di altre configurazioni condizionate e transitorie noi possiamo trovare la via verso la saggezza e la pace.

Questo non significa ritirarsi dalle esperienze e distaccarsene. Al contrario, la consapevolezza della coscienza ci libera dalla paura dei costanti cambiamenti delle condizioni di vita. Il modo in cui rispondiamo può condurci ad aggrovigliarci in un conflitto senza fine con la nostra stessa esistenza, oppure alla libertà e alla leggerezza (personalmente mi spendo e suggerisco sommessamente di lavorare in questa direzione).
Comprendere la condizione umana è fondamentale, secondo la visione buddhista sono due le modalità che conducono alla creazione del senso del sé:
  • la visione che abbiamo di noi, ciò che pensiamo di essere, che si identifica con l’esperienza e la considera sua 
  • la visione comparata, che valuta, giudica il senso del sé in relazione agli altri, come migliore, peggiore, uguale
Noi creiamo il senso del sé ogni volta che ci identifichiamo con il corpo, la mente, le convinzioni, i ruoli o le nostre situazioni di vita e la vita non ci fa mancare nulla per esercitarci in questo lavorio instancabile. Questa forma di identificazione si verifica inconsciamente, ogni volta che noi consideriamo le nostre sensazioni, emozioni, stati mentali, pensieri come noi stessi o nostri.

Il Buddha rivolse in continuazione questa domanda:

“monaci, possiamo definire o chiamare queste cose che sono in costante cambiamento come il sé?
Le esperienze sensoriali in costante mutamento che si verificano nel corpo sono il sé?
Le emozioni e le percezioni sono il sé?
I pensieri, le formazioni mentali, le idee, le visioni sulla vita sono il sé?
Gli stati della coscienza nella loro mutevolezza sono il sé?”

Dal punto di vista del Buddha in tutti questi aspetti non troviamo e non rappresentano un sé durevole e consolidato.
Ciò che noi assumiamo come il sé, in realtà, se ci stiamo bene attenti, è un flusso mutevole e provvisorio di temporanee identificazioni, a volte simili, a volte estremamente diverse tra di loro. L’illusione del sé si materializza nel nostro instancabile aggrapparci a qualche istante o aspetto dell’esperienza.

Il senso del sé appare, solidifica sé stesso come ghiaccio che galleggia sull’acqua, ma il ghiaccio è fatto della sostanza dell’acqua, ciò che muta è lo stato in cui si trova. Identificazioni e adesioni solidificano l’acqua in ghiaccio, ne cambiano lo stato proprio nello stesso modo noi ci sentiamo separati da ciò che ci circonda.

Sia la psicologia buddhista che quella occidentale riconoscono il bisogno di un salutare sviluppo del senso del sé. In occidente il non trovare una propria identità viene considerato un fattore di crisi. Freud e la psicologia occidentale hanno ben descritto gli stadi di sviluppo del sé, hanno descritto come (mi vorranno perdonare gli psicologi se, con tutti i limiti, sconfino per qualche riga per amor di confronto):
  • il bambino gradualmente separa la sua identità da quella della madre
  • quando il bambino scopre che i suoi bisogni non sempre vengono soddisfatti dalla madre sorge la necessità di gestire e controllare gli imprevisti che si presentano 
  • la mente impara a sentire sé stessa come separata e a far fronte a paure, frustrazioni della vita sviluppando abilità di linguaggio, ricordi piacevoli, e strategie di risoluzione dei problemi 
  • un efficace senso del sé si identifica con il maturare delle capacità fisiche e sociali
      Il centro operativo di tutto questo è stato chiamato ‘ego’ da Freud

Nel buddhismo questo processo viene descritto in modo abbastanza simile, anche se più figurato e metaforico, nel visuddhimagga (importante e centrale testo canonico buddhista) si descrive come:
  •  l’originale radianza degli esseri nati sulla terra muta nel cambiamento verso una forma più grossolana grazie al latte materno e al cibo solido  
  • i piaceri e i dispiaceri crescono e si formano le frustrazioni, il mondo che originariamente aveva il sapore del gelsomino diventa difficile e amaro 
  •  il nuovo essere diventa consapevole del bisogno di nutrirsi, urinare, defecare, della mascolinità e femminilità si costruiscono i confini di io e mio, sorge il bisogno di auto proteggersi  
  • poi impara a trattenere gli impulsi e man mano cresce la capacità di sentirsi e gestirsi
·     Il dono della metafisica buddhista è quello di farci fare il passo successivo, ovvero la capacità evolutiva di vedere oltre il senso separato del sé, la visione buddhista ci indica che lo sviluppo equilibrato ordinario del sé non è la fine della storia.

…senza pensarci troppo
senza sentire troppo poco
con tutta la forza creativa che abbiamo
con il potere dell’intenzione consapevole
Buon viaggio…

6 commenti:

  1. Molto ispirante, grazie Giancarlo

    RispondiElimina
  2. Grazie a te per essere passata/o di quà lasciando una traccia...che l'ispirazione ti accompagni nelle tue avventure

    RispondiElimina
  3. grazie Giancarlo, non sbagli un colpo! davvero stimolante.

    RispondiElimina
  4. Caro Massimo, grazie per essere passato di quà, spero di vederti al prossimo incontro

    RispondiElimina