domenica 5 maggio 2019

Abhidhamma nella vita quotidiana. Capitolo 3 - Citta la coscienza




Proseguiamo con il 3° capitolo di Abhidhamma nella vita quotidiana di Nina Van Gorkom, quello che descrive le funzioni della coscienza o citta .
L'Abhidhamma è il terzo dei canestri della Canone Buddhista ed è un’esposizione dettagliata di tutte le realtà, costituisce una risorsa fondamentale per comprendere appieno la visione buddhista della mente e della realtà. La pubblicazione della versione italiana è stata curata da A.S.Comba.
Segnalo a tutti voi la pagina web di lulu.com di Antonella Comba nella quale pubblica i suoi lavori, potete trovare molte risorse di fondamentale per lo studio del buddhismo. Antonella ha tradotto dal Pali testi di grande importanza che è possibile scaricare in formato .pdf per consultazione, oppure riceverli rilegati.
Ad Antonella, amica e compagna nel Dhamma, va il mio personale ringraziamento per il suo lavoro.
N.B. questi post sono di grande rilevanza per comprendere pienamente il pensiero buddhista, costituiranno tema di approfondimento nei futuri Incontri Domenicali

CAPITOLO III

I diversi aspetti del citta (coscienza)


Il Buddha parlò di tutto ciò che è reale, perciò il contenuto del suo insegnamento può essere verificato mediante la nostra esperienza. Tuttavia, non conosciamo veramente le realtà più comuni della vita quotidiana, cioè i fenomeni mentali e i fenomeni fisici che si manife stano attraverso gli occhi, le orecchie, il naso, la lingua, il senso corporeo e la mente; a quanto pare, siamo per lo più interessati al passato o al futuro. Scopriremo però che cosa è realmente la vita se conosceremo meglio le realtà del momento presente e se impareremo a esserne consapevoli allorché appaiono.

Il Buddha spiegò che il citta (la coscienza) è una realtà. Potremmo tuttavia dubitare che i citta siano reali. Come possiamo provare che i citta esistono? È possibile che ci siano solo fenomeni fisici e non fenomeni mentali? Ci sono molte cose nella nostra vita che diamo per scontate: la casa, il cibo, i vestiti e gli strumenti che usiamo ogni giorno. Queste cose non appaiono da sé, ma sono causate da una mente pensante, il citta. Esso è un fenomeno mentale che conosce o sperimenta qualcosa. Il citta non è come un fenomeno fisico che non sperimenta alcunché: per esempio, se ascoltiamo una musica che è stata scritta da un compositore, possiamo pensare che è stato il citta ad avere l’idea di scriverla ed è stato il citta che ha mosso la mano del compositore affinché egli scrivesse le note. La sua mano non potrebbe essersi mossa senza il citta.

Il citta può conseguire molti effetti diversi. Leggiamo nell’Aṭṭha-sālinī (il commento alla Dhamma-saṅganī, primo libro dell’Abhidhamma):

Come può [la mente] creare opere d’arte? Nel mondo non c’è una mente superiore a quella che dipinge. Infatti la mente che si applica a dipingere diventa una supermente (aticitta). Mentre i pittori dipingono, sorge in loro una percezione della mente se- condo la quale certe forme devono essere tracciate in un certo luogo. Essendovi tale percezione, sorgono azioni della mente  che producono la trama del disegno, la colorazione, la lucidatura, la spianatura ecc. Perciò, quando la mente è condizionata dalla pratica, può produrre qualsiasi forma artistica (vicitta-rūpa). Colui che è cosciente riflette dapprima sul fatto che l’arte è supe- riore a una certa forma fisica, inferiore a un’altra o pari a en- trambe, e poi crea secondo i suoi desideri altre forme artistiche. Così qualsiasi opera variopinta (vicitta) nel mondo sia arte (sippajāta) è creata dalla mente. Quindi, essendoci varietà nel pro- cesso creativo, anche la mente che produce le varie opere artisti- che è un’opera d’arte. Oppure la mente è persino più artistica dell’arte, perché quest’ultima non può creare [le sue opere] così come erano state concepite, in modo perfetto.
Perciò il Beato disse:
“Monaci, avete visto il dipinto chiamato «movimento» (ca- raṇa)?”.
“Sì, Venerabile”.
“Anche il dipinto chiamato «movimento» è dipinto dalla mente. Perciò, o monaci, la mente è senz’altro più artistica del dipinto
«movimento»12.

Leggiamo poi quali sono le diverse azioni compiute dal citta: esso compie sia azioni positive, come quelle ispirate dalla generosità, sia azioni negative, come quelle dettate dalla crudeltà e dalla falsità, e queste azioni producono effetti diversi.

Non c’è solo un tipo di citta, ma ce ne sono molti, dal momento che ogni persona reagisce in modo diverso a ciò che sperimenta: ciò che è gradito a una persona può risultare sgradito a qualcun altro. Analogamente, possiamo notare come sono diverse le persone che producono qualcosa: anche quando due persone intendono creare lo stesso oggetto, il risultato è piuttosto diverso. Per esempio, quando due pittori dipingono lo stesso albero, i loro dipinti possono essere molto differenti. Gli esseri umani hanno talento e capacità peculiari: per esempio, alcuni non hanno difficoltà a studiare, mentre altri sono inadatti allo studio. I citta non sono soggetti al nostro controllo, in quanto ciascuno di essi sorge se ci sono determinate condizioni.Perché ci sono differenze tanto profonde fra le persone? Perché, nel tempo, esse accumulano tendenze diverse. Quando si insegna a un bambino a essere generoso fin dalla più tenera età, egli può accumulare la generosità; per contro, coloro che sono spesso in colleraaccumulano molta rabbia. Tutti noi accumuliamo tendenze, gusti e capacità.

Ogni citta che sorge svanisce completamente ed è seguito dal citta successivo. Come può esserci allora un’accumulazione di tendenze positive e negative? Ciò è possibile perché dopo ogni citta ne sorge un altro: la nostra vita è una serie ininterrotta di citta, ciascuno dei quali condiziona quello successivo. Il processo si ripete senza sosta e così il passato condiziona il presente. Di fatto i citta positivi e negativi del passato condizionano le nostre tendenze attuali, e così si accumulano le tendenze positive e negative.


Tutti noi abbiamo accumulato molte tendenze impure e inquinanti (pāli kilesa, lett. “afflizioni”). Gli inquinanti sono per esempio la cupidigia o l’attaccamento (lobha), l’avversione o la rabbia (dosa) e la confusione o illusione (moha); essi possono avere gradazioni diverse: esistono inquinanti sottili o tendenze latenti, inquinanti medi e grossolani. Gli inquinanti sottili non si manifestano insieme al citta, ma sono latenti: si accumulano e rimangono dormienti nei citta. Quando dormiamo un sonno senza sogni, non ci sono akusala-citta, ma sono presenti tendenze latenti (anusaya) non salutari. Allorché ci svegliamo, gli akusala-citta ricominciano a sorgere: come potrebbero manifestarsi se in ogni citta non si fossero accumulate tendenze latenti non salutari? Esse rimangono presenti nei citta anche quando questi non sono akusala, finché la saggezza non le estirpa definitivamente.

Gli inquinanti medi sono diversi da quelli sottili perché sorgono insieme al citta e non rimangono allo stato latente. I citta accompagnati da questo tipo di inquinanti sono radicati nella cupidigia (lobha), nell’avversione (dosa) e nella confusione (moha). Un kilesa medio è per esempio l’attaccamento a ciò che si vede, si ode o si sperimenta attraverso il senso corporeo, oppure l’avversione per certi oggetti dell’esperienza. Il kilesa di media intensità non provoca azioni negative.

Gli inquinanti grossolani motivano a compiere mediante il corpo, la parola e la mente atti non salutari o akusala-kamma, quali uccidere, calunniare o nutrire l’intenzione di appropriarsi dei beni altrui. Il kamma consiste di fatto in volizioni o intenzioni e può indurre ad azioni positive o negative. Il kamma è un fenomeno mentale e, come tale, può essere accumulato: gli individui accumulano inquinanti diversi e kamma differenti.

Secondo la legge del kamma e del vipāka, della causa e dell’effetto, l’accumulo di un particolare kamma costituisce una condizione per un particolare risultato nella vita. Possiamo constatare che ciascuno nasce in situazioni diverse: alcuni vivono in ambienti gradevoli e hanno esperienze piacevoli nel corso della loro vita, mentre altri possono sperimentare circostanze sgradevoli, come la povertà e la malattia. Quando sentiamo parlare di bambini che soffrono la fame, ci chiediamo perché devono patire così tanto mentre altri bambini hanno tutto ciò che desiderano. Il Buddha disse che ciascuno riceve il frutto delle sue azioni. Un’azione o un kamma del passato può produrre il suo effetto in un tempo successivo, perché l’akusala-kamma e il kusala- kamma si accumulano.


 Quando si verificano condizioni appropriate, il risultato del kamma si manifesta sotto forma di vipāka. L’uso delle parole “risulta-to”, “effetto”, “frutto”, può indurre qualcuno a pensare che si sta parlando delle conseguenze delle proprie azioni sugli altri, ma la parola vipāka ha un significato diverso: il vipāka-citta è un citta che sperimenta un oggetto spiacevole o piacevole, e questo citta è l’effetto di un’azione che noi stessi abbiamo compiuto. Siamo abituati a pensare che esiste un sé il quale sperimenta oggetti gradevoli o sgradevoli, ma in realtà non esiste alcun sé: ci sono solo citta che sperimentano vari oggetti.

Alcuni citta sono cause che possono provocare azioni positive o negative in grado di produrre i loro effetti. Altri citta sono risultati o vipāka: quando vediamo qualcosa di sgradevole, non è il sé che vede, bensì un citta, una coscienza visiva, che è l’effetto di un’azione non salutare (akusala-kamma) compiuta in questa vita o nelle esistenze precedenti. Questo citta è un akusala-vipāka. Se invece vediamo un oggetto gradevole, ecco un citta che è un kusala-vipāka, il risultato di un’azione positiva che abbiamo compiuto in passato. Pertanto, ogni qual volta sperimentiamo un oggetto spiacevole attraverso uno dei cinque sensi, c’è un akusala-vipāka; viceversa, allorché sperimentiamo qualcosa di piacevole, c’è un kusala-vipāka. Se una persona è percossa da qualcun altro, il dolore che per- cepisce non è il vipāka o l’effetto dell’azione compiuta dall’altro, ma il risultato di un’azione negativa che essa stessa ha compiuto in precedenza: è un akusala-vipāka che si manifesta mediante il senso corporeo.   La percossa dell’altro è solo la causa prossima del dolore. Quanto all’aggressore che percuote, è il suo akusala-citta che lo spinge a commettere l’azione negativa, e prima o poi ne riceverà il risultato. Allorché acquistiamo una migliore comprensione del kamma e del vipāka, possiamo vedere con maggiore chiarezza molti avvenimenti della nostra vita. L’Aṭṭhasālinī spiega che il kamma provoca effetti differenti nei diversi individui, sia alla nascita sia nel corso della vita. Anche le caratteristiche fisiche sono il risultato del kamma:

A seconda dei vari kamma, gli esseri rinascono senza gambe, con due gambe ecc., oppure in un ceto sociale superiore, inferio- re ecc., o con un aspetto bello, brutto ecc., o con dhamma mon- dani quali guadagno, perdita ecc.3

Altrove leggiamo queste parole:


Il kamma fa girare il mondo,
il kamma muove il genere umano; gli esseri sono legati al kamma, come la ruota del carro al suo asse4.

Il Buddha insegnò che ogni cosa sorge a causa di determinate condzioni: non è un caso che gli individui abbiano caratteristiche fisiche e psichiche diverse e che vivano in ambienti differenti. Anche le diversità fisiche presenti negli animali sono dovute a un diverso kamma; anche gli animali hanno citta e possono comportarsi bene o male, accumulando kamma positivi o negativi che producono effetti diversi. Se ci rendiamo conto del fatto che ogni kamma produce il proprio frutto, sapremo che non abbiamo motivo di inorgoglirci se siamo nati in una famiglia ricca o se riceviamo lodi, onori e altre cose piacevoli. Quando invece soffriamo, potremo capire che la sofferenza è dovuta alle nostre azioni. Così saremo meno inclini a criticare gli altri a causa della nostra infelicità o a essere gelosi quando gli altri ricevono qualcosa di piacevole. Quando abbiamo una comprensione profonda della realtà, sappiamo che non è il sé che riceve oggetti piacevoli o che deve soffrire: è solo un vipāka, un citta che sorge a causa di particolari condizioni e che svanisce immediatamente. Possiamo constatare che individui nati nelle stesse situazioni si comportano pur tuttavia in modo diverso. Per esempio, fra coloro che nascono in famiglie ricche, alcuni sono avari, mentre altri non lo sono. Il fatto che si nasca in una condizione sociale agiata è il frutto del kamma. L’avarizia è provocata dagli inquinanti che si sono accumulati. 
Ci sono molti tipi diversi di condizioni che svolgono il proprio ruolo nella vita di ciascuno. Il kamma fa rinascere in determinate situazioni e le tendenze accumulate condizionano il carattere. È possibile che si nutrano dubbi sull’esistenza di vite passate o future, perché si sperimenta solo l’esistenza attuale; tuttavia possiamo notare come in questa vita ciascuno sperimenti particolari risultati che devono avere cause nel passato. Il passato condiziona il presente, e le azioni che compiamo ora produrrano i loro frutti in futuro. Se comprendiamo il presente, riusciremo a capire meglio il passato e il futuro. Le vite del passato, del presente e del futuro sono una serie ininterrotta di citta, in quanto ogni citta sorge, svanisce ed è seguito immediatamente dal citta successivo. I citta non durano, ma non c’è alcun istante in cui non esista un citta: se ci fossero istanti privi di citta, il corpo morirebbe. Ci sono citta anche quando ci addormentiamo pro- fondamente. Come il citta che svanisce è seguito da quello successivo, così l’ultimo citta di questa vita è seguito dal primo citta della vita successiva, la “connessione di rinascita” (paṭisandhi). Le accumulazioni possono quindi continuare da un citta all’altro, da una vita all’altra: così vediamo che la vita continua e che ci muoviamo in un ciclo, il ciclo della nascita e della morte. Un citta non può sorgere finché il citta precedente non è svanito. Benché ci possa essere solo un citta per volta, i citta sorgono e sva- niscono con tale rapidità che si ha l’impressione che ce ne sia contem- poarneamente più di uno. Possiamo pensare che sia possibile udire e vedere nello stesso tempo, ma in realtà ciascuno di questi citta sorge in un istante differente. Possiamo verificare con l’esperienza che il vedere è un tipo di citta diverso dall’udire: questi citta sorgono a causa di con- dizioni diverse e sperimentano oggetti differenti.
Un citta è ciò che sperimenta un oggetto, e non esiste alcun citta che sia privo di un oggetto. I citta sperimentano diversi oggetti attraverso le sei porte degli occhi, orecchie, naso, lingua, senso corporeo e mente. Il vedere, per esempio, è un citta che sperimenta ciò che appare attraverso gli occhi. Possiamo usare l’espressione “oggetto visibile” per indicare l’oggetto che è visto, ma non è necessario chiamarlo così. Quando l’oggetto visibile entra in contatto con il senso della vista, si hanno le condizioni che permettono il vedere. Il vedere è diverso dal riflettere su ciò che abbiamo visto: questo è un tipo di citta che sperimenta qualcosa attraverso la porta della mente. Anche l’udire è un citta che è diverso dal vedere, in quanto ha luogo grazie a condizioni diverse e sperimenta un oggetto specifico. Quando il suono entra in contatto con il senso dell’udito, sono presenti le condizioni che permettono al citta di sperimentare un suono. Affinché sorga un qualsiasi citta sono necessarie condizioni appropriate, perché non possiamo sperimentare un odore con le orecchie o un sapore con gli occhi. Un citta che percepisce l’odore, lo avverte tramite il naso; un citta che assapora un gusto, lo sente con la lingua, così come un citta che sperimenta un oggetto tangibile, lo percepisce con il senso corporeo. Attraverso la porta della mente i citta possono sperimentare ogni tipo di oggetto. Ci può essere solo un citta per volta e ciascun citta può sperimentare solo un oggetto alla volta. 
In teoria è possibile capire come un citta che vede abbia una caratteristica diversa da un citta che ode, e come un citta sia diverso da un fenomeno fisico che non sperimenta alcunché. Tale conoscenza può sembrarci piuttosto semplice, ma un conto è saperlo in astratto, un altro è conoscere la verità verificandola nell’esperienza. La conoscenza astratta non è molto profonda e non può pertanto sradicare il concetto di un sé. Soltanto se si è consapevoli dei fenomeni allorché essi appaiono attraverso le sei porte si può conoscere la verità tramite l’esperienza stessa. Allora si può constatare come questo tipo di conoscenza sia in grado di estirpare il concetto di un sé.


Gli oggetti che sperimentiamo si trovano nel mondo in cui viviamo. Il mondo degli oggetti visibili non dura a lungo, ma svanisce immediatamente. Quando udiamo, il mondo è suono, ma anch’esso svanisce. Siamo assorbiti e ammaliati dagli oggetti che sperimentiamo attraverso gli occhi, le orecchie, il naso, la lingua, il senso corporeo e la porta della mente, ma nessuno di questi oggetti persiste. Ciò che è impermanente non può essere scambiato per un sé. 
Nell’Aṅguttara-nikāya leggiamo che il deva Rohitassa chiese al Buddha come si potesse raggiungere la fine del mondo:

“Venerabile, è possibile che, andando fino alla fine del mondo, si conosca, si veda e si raggiunga quel luogo in cui nessuno nasce, invecchia, muore, trapassa e rinasce?”.
“Amico, io dico che neppure andando fino alla fine del mondo è possibile conoscere, vedere e raggiungere quel luogo in cui nessuno nasce, invecchia, muore, trapassa e rinasce”.
“È meraviglioso, Venerabile! È fantastico, Venerabile, come il Beato ha ben detto che «neppure andando fino alla fine del mondo è possibile conoscere, vedere e raggiungere quel luogo in cui nessuno nasce, invecchia, muore, trapassa e rinasce»! Un tempo, Venerabile, ero un veggente chiamato Rohitassa, figlio di Bhoja; dotato di poteri psichici, passeggiavo per il cielo. Tale era la mia velocità, Venerabile, che nel tempo necessario a un arciere forte, abile, preparato e allenato per tirare facilmente una freccia veloce attraverso l’ombra di un albero di palma, io potevo fare un passo lungo quanto la distanza fra l’oceano orientale e quello occidentale. Poiché avevo una tale velocità e un tale passo, sorse in me un desiderio: «Raggiungerò a piedi la fine del mondo». Ma, benché io vivessi cent’anni, Venerabile, e benché camminassi per cent’anni, tranne il tempo per mangiare e bere, per urinare e defecare, per dormire e riposarmi, non riuscii mai a raggiungere la fine del mondo e morii lungo la strada. È meraviglioso, Venerabile! È fantastico, Venerabile, come il Beato ha ben detto che «neppure andando fino alla fine del mondo è possibile conoscere, vedere e raggiungere quel luogo in cui nessuno nasce, invecchia, muore, trapassa e rinasce»!”.
“Amico, è quello che dico. Tuttavia io non sostengo che si può porre fine alla sofferenza senza raggiungere la fine del mondo. Inoltre, amico, io affermo che è in questo corpo alto un cubito, con le sue percezioni e con i suoi pensieri, che c’è il mondo, l’origine del mondo, la cessazione del mondo e la via che conduce alla cessazione del mondo. Camminando non si può raggiungere la fine del mondo, né, senza raggiungere la fine del mondo,ci si libera dalla sofferenza.

                               Perciò il saggio che conosce il mondo, pone fine a esso, vive una vita pura; conoscendo con calma 
                               la fine del mondo, non desidera più questo mondo né l’altro”5.

Il Buddha insegnò alla gente che cos’è il “mondo” e la via per raggiungere la fine del mondo, cioè la fine della sofferenza, dukkha. La via per realizzare tale fine è la conoscenza del mondo, vale a dire la conoscenza di “questo corpo alto un cubito, con le sue percezioni e con i suoi pensieri”, la conoscenza di se stessi.

Domande:


1.   Gli individui nascono in situazioni diverse: alcuni nascono ricchi, altri poveri. Qual è la causa di tutto ciò?
2.   Gli individui si comportano in vari modi: qualcuno è avaro, qualcun altro è generoso. Cosa li condiziona? 
3. Ogni citta che sorge svanisce completamente. Com’è possibile che gli inquinanti possano essere accumulati?

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